Negli ultimi mesi ho ricevuto spesso una domanda rivolta al mio futuro (questo mi ha fatto piacere) più che al passato: Dove andrai? Oggettivamente, oggi sono chairman di Futura SGR, di nuovo consulente e presto anche altro (niente spoiler che non è ancora il momento). Eppure, non ho mai dato una risposta definitiva per un motivo molto semplice: prima di tutto avrei dovuto stabilire il significato di carriera, perché definisce di conseguenza l’approccio alla vita e al lavoro. Ci provo ora, ponendovi le stesse domande che mi sono fatto io: Quando potrò dire di essermi realizzato? Quando smetterò di cercare il mio posto nel mondo? Alla prima domanda, più che “quando” dovremmo chiederci “quante volte”, perché i momenti in cui ci si sente realizzati possono essere molti, diversi tra loro e generalmente meno legati a poltrone più prestigiose o stipendi più alti di quanto si possa immaginare. Con questo non sto dicendo che non mi piaccia avere ruoli importanti e ben pagati: non scherziamo. Sto solo dicendo che, almeno nella mia esperienza, sono la conseguenza della ricerca della propria realizzazione, non la causa. Alla seconda domanda, devo dire che la mia risposta è: “Non lo so.” Avrei tutti i motivi per sentirmi appagato, ma il mondo è in continuo cambiamento e io voglio farne parte per coglierne tutte le opportunità, umane, professionali ed economiche. Ecco che allora carriera non significa stare dietro una scrivania, su una poltrona o in un CDA. Non significa aggiungere piante e mobili all’ufficio come nella visione fantozziana del potere sul lavoro. Carriera significa guadagnare facendo sempre meglio ciò che si ama. Di solito finisce quando ci si siede su una poltrona e non ci si rialza più.
Post di Gabriele Benedetto
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Da ieri lo #smartworking ha smesso di essere un beneficio per tutte le aziende ed è tornato ad essere un privilegio per pochi o una concessione di pochi.
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Che io stia con Uber è facile da capire. Non perché provi particolare simpatia o amicizia verso Lorenzo Pireddu: non ci conosciamo di persona e al momento non siamo nemmeno collegati qui su LinkedIn. Sto con #Uber perché rappresenta la situazione per cui, di fronte a un ritardo del legislatore, il mercato inventa una soluzione nuova e inaspettata, destinata a cambiare le cose qualunque sia la resistenza che incontra. Una soluzione destinata a fare gli interessi di chi la propone, attraverso la capacità di fare gli interessi di chi la sceglie. Cioè, quella che considero l’unica relazione possibile tra un brand e chi lo fa esistere: i clienti.
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Non ho mai amato le quote rosa, ma ne ho compreso dal primo momento l’importanza. È chiaro che c’è una questione di genere che è stata affrontata attraverso una decisione forte e che facesse emergere in modo oggettivo il problema, per spingere la società a trovare, oltre a una risposta immediata, la spinta per un cambiamento atto ad annullare le differenze. Onestamente, non ho mai fatto alcuna distinzione tra i generi. Se parliamo di carriera, posso dire di aver fatto crescere donne come uomini riconoscendo loro il talento e l’impegno senza mettere in campo altro. Nascere uomini o donne non può rappresentare in un verso come nell’altro un peccato originale. Né si può pretendere che gli uni somiglino alle altre, o viceversa. Senza contare che ogni persona è diversa e ha le proprie caratteristiche. Viviamo in una società che per quanto sembri immobile, sta cambiando. Potrebbe farlo più velocemente se mentre le aziende operano per rendere più sostenibile la vita delle donne, lo facessero anche allargando culturalmente e poi fattivamente l’impegno degli uomini nelle proprie famiglie. E potrebbe farlo più velocemente se fuori dalle aziende, la società tutta, a partire dal legislatore, agisse in modo più profondo per non rendere la relazione con il lavoro una rinuncia ai propri obiettivi personali. Più che pensare a cambiare il ruolo della donna nella società, dovremmo cambiare il ruolo della società nella vita delle donne. Al plurale, sì, perché sono diverse per età, estrazione, formazione, provenienza e al momento, spiace dirlo, accomunate da un problema solo: una cultura sbagliata che non ne riconosce le pari opportunità.
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Cinque cose che ho imparato dalla storia dei lucchetti sparsi a Milano per gli affitti brevi. Parlo dei dispositivi che si aprono con un codice, diventati un'icona del settore degli affitti brevi trainato da piattaforme come Airbnb, per gestire l'accesso agli alloggi in mancanza di interazione diretta tra ospite e proprietario. 1. Come per ogni innovazione che precede il legislatore, manca una regolamentazione, con ovvie conseguenze disastrose sul decoro urbano, con conseguente tensione con cittadini e cittadine. 2. Sollevano temi di sicurezza sia verso gli alloggi, potenzialmente vulnerabili, come rispetto alle persone che effettivamente ci entrano, di cui non si sa nulla. Tradotto: nessuno sa se questa intersezione tra digitale e fisico generata dai lucchetti sia gestita con la dovuta attenzione. 3. C’è il solito tema della resistenza generazionale che non vede, in un Paese come il nostro che fa ancora fatica a far decollare domotica e altre tecnologie abilitanti, la vera opportunità di arricchire l'esperienza di ospiti e proprietari, tenendo però conto del decoro urbano. 4. Data una tecnologia pronta all’uso, manca la visione e l’impegno collettivo per trasformare le potenzialità di un futuro in cui digitale e fisico si fonderanno in un beneficio comune. 5. Questa storia, a mio avviso, è un chiaro invito all'azione per innovatori e legislatori, per esplorare le nuove frontiere dell'abitare condiviso con chi le renderà davvero possibili: le comunità. Voi che dite?
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Ho sempre pensato che un ruolo arrivi da due direzioni. La prima, dall’alto, quando vieni nominato manager per fare ciò che devi. La seconda, dal tuo gruppo di lavoro, quando lavori per fare ciò che è giusto. Tra le due direzioni, la più importante è quella che ti fa capire che il tuo vero capo non è chi ti ha dato un biglietto da visita, ma chi certifica le tue capacità con il proprio impegno, facendo la differenza con te. Questa relazione ha bisogno di una parola chiave che apre tutte le porte: #rispetto. Rispetto di competenze e inesperienza, vita personale e diversità, ruoli e responsabilità. Rispetto dei difetti (prima che dei pregi o sarebbe troppo facile), perché sono quelli che spingono a crescere, aiutando qualsiasi persona, a qualsiasi livello, a migliorarsi. Ma attenzione, questo non significa ambire ad avere un’azienda perfetta. Non ne esiste una, quindi se la cercate state facendo la cosa sbagliata. Piuttosto, significa lavorare in un luogo dove il rispetto degli obiettivi aziendali, passa attraverso il rispetto di chi li fa ottenere.
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In quest’era di #AITransformation, mi ritrovo immerso nel testare le ultime novità. Dal familiare OpenAI all’integrazione con Office di Copilot, passando per la novità di Gemini, fino all’adozione di strumenti specifici per use case verticali. Tuttavia, un concetto emerge prepotentemente in questo viaggio attraverso l’AI: lo switching cost. Ogni transizione da una piattaforma all’altra comporta una ripida curva di apprendimento, non solo per assimilare le nuove funzionalità, ma anche per adattare le mie strategie e processi di lavoro. La mia affinità maggiore resta con ChatGPT, con cui ho sviluppato una certa dimestichezza, comprendendo il suo “ragionamento” e come collaborare efficacemente. Ciononostante, l’elemento che potrebbe convincermi a cambiare è la multimodalità. Immaginare una piattaforma che integri non solo testo, immagini e audio, ma che offra anche un’interfaccia unificata per gestire una varietà di use case, inclusi video YouTube, social media, servizi cloud e gestione di PDF, è estremamente allettante. Questo non rappresenterebbe solo una maggiore comodità, ma segnerebbe una vera rivoluzione in termini di efficienza e produttività. D’altra parte, vi muovereste solo in autobus, quando potreste usare treni, monopattini, auto, aerei o navi in base alle esigenze? E non sarebbe utile avere tutto questo in una sola piattaforma? Sì, ricorda qualcosa anche a me. Ora, sull’AI, sono curioso di scoprire chi riuscirà a offrire un’esperienza così fluida e integrata da giustificare un unico abbonamento, potenzialmente più costoso, ma in grado di liberarmi dalla gestione di molteplici sottoscrizioni. Per unire più intelligenze al servizio della nostra
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Ieri sera, passeggiando per le vie di Milano, ho aperto le App di MaaS (Mobility as a Service) per scegliere la migliore opzione di rientro a casa. Immaginate la sorpresa nel trovare mappe quasi vuote: pochissimi monopattini, un solo operatore di motorini e appena un paio per le biciclette. Un panorama che mi ha portato a domandarmi: dove sta andando la mobilità condivisa nella nostra città? Nonostante il crescente dibattito su zone 30 e mobilità sostenibile, sembra che il concetto di Smart City stenti a realizzare appieno il potenziale della condivisione dell’ultimo miglio. Di chi è la responsabilità? Difficile attribuire la colpa: utenti, amministrazioni locali e operatori di mobilità condivisa sembrano tutti contribuire, in varia misura, a questa situazione. Riflettendo su questo scenario, mi chiedo: è davvero la mobilità condivisa a non funzionare, o siamo noi a non essere ancora pronti per abbracciare pienamente questo modello sostenibile? Perché qualsiasi rivoluzione culturale – e quella della mobilità lo è – ha bisogno di tutte le realtà coinvolte nel cambiamento per riuscire. Ma nonostante in questo momento sembri impossibile (a me ricorda un po’ la fatica fatta dal web dei primi anni), io credo che la rivoluzione urbana sia semplicemente rimandata, perché già inevitabile. Lo diventerà davvero quando le città si scrolleranno di dosso il modello organizzativo del ‘900 per essere accompagnate definitivamente nel mondo di oggi. E lo faranno prima di tutto grazie alle persone che le abitano e vivono. Da loro arriverà la domanda. Dalla mobilità sostenibile, tutte le risposte.
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Nella grande discussione intorno all’intelligenza artificiale credo stia mancando un punto fondamentale che provo ad aggiungere alla conversazione in atto qui, su spunto di Marco Valsecchi: https://lnkd.in/dMEYq5hs Attualmente il mondo si divide tra chi pensa che l’AI farà perdere il lavoro a migliaia se non milioni di persone, e chi invece pensa che sarà la cura per tutti i problemi legati all’efficienza dei processi, alla puntualità dei dati, alla capacità di realizzare in tempi mai visti prima una serie di task impensabili. Ciò che sfugge a queste due fazioni è che l’intelligenza artificiale è prima di tutto uno strumento nelle mani di chi la saprà usare. E questo vale in ogni campo, dai data analyst ai creativi, passando per gli autori di libri, i giornalisti e via dicendo. L’AI non inventa. Piuttosto amplifica e semplifica: accelera una serie di processi (dis)umani che in alcuni casi spingono non poche persone ai limiti del burnout, o che ci tolgono tempo per dedicarci meglio invece a cose per le quali saremo sempre indispensabili. Se fossi un’azienda non mi preoccuperei quindi di decidere come sostituire i dipendenti. Se fossi una scuola non mi preoccuperei di come combattere l’arrivo della tecnologia. Piuttosto, mi impegnerei per incentivare la formazione di una nuova generazione capace di unire le proprie capacità a uno strumento che la renderà più competitiva nel mercato del lavoro. E quando dico nuova generazione non parlo in termini anagrafici, ma di competenze. Tutti possono acquisirle, se messi nelle condizioni mentali e oggettive di farlo. Questa è la vera sfida dell’AI: cambiare il mondo del lavoro senza che ci siano essere umani miopi a distruggerlo.
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Come CEO, ho vissuto un viaggio incredibile che ha consolidato una convinzione: nel business, non ci sono limiti quando si fondono tre elementi chiave, quali la formazione continua, la sua pratica attiva, e il superamento dei confini consueti. Questi principi guidano anche la visione che ho per il mio futuro e per quello delle persone con cui ho scelto di collaborare con l’obiettivo comune di connettere idee non convenzionali. Principi che ho seguito anche negli ultimi mesi, dedicandomi a tre iniziative significative. La prima, molti di voi già la conoscono: immergermi all’estero nell’innovazione dell’AI, per essere pronto al futuro che chiamo Ai Transformation. Ora, è tempo di parlare della seconda iniziativa. Come alcuni di voi hanno visto nella sezione esperienze del mio profilo LinkedIn, abbiamo fondato Futura SGR. Questa nuova società si impegna a investire in tecnologie e individui che possono realmente fare la differenza, con un focus sull’innovazione tecnologica, digitale, e di processo, prestando particolare attenzione all’AI e all’ESG. E qui sta il punto fondamentale: l’innovazione e la sua applicazione a modelli di business e di crescita o la comprendi in tutte le sue possibilità, o devi affidarti a chi ogni giorno, più che seguirla, la vive e ne fa una leva di crescita nei fatti, non nella teoria. La forza di Futura SgR sta nella sua capacità di navigare un mercato sfidato da inflazione, tassi elevati e instabilità geopolitica, ma che rimane sempre dinamico di fronte all’innovazione. Ed ovviamente nel team che sto imparando a conoscere giorno dopo giorno Fabio Luigi Gallucci, Ilaria Bertizzolo, Sara Kraus e Stefano Giavari. Presto, vi svelerò la terza iniziativa, che mi porterà a mettere in pratica tutto ciò che ho imparato nel mio percorso come innovatore, manager e da oggi come investitore.
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